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Show, don't tell: questo (s)conosciuto

  • Immagine del redattore: Andrea Brunori Editor
    Andrea Brunori Editor
  • 13 ott
  • Tempo di lettura: 7 min

show dont tell Andrea Brunori Editor
Raccontato vs Mostrato

Uno dei concetti più affrontati dai professionisti di scrittura creativa e narrativa, ma allo stesso tempo difficilmente carpiti da molti scrittori, è quello riassunto nella frasetta “show, don’t tell”.

In questo articolo cercherò di fare luce sulla questione spiegando di cosa si tratta effettivamente, perché risulta così difficile padroneggiarlo e come e in quali contesti può essere applicato.

 

Cos’è

Con raccontare si intende “riportare al lettore una propria rielaborazione del testo”, là dove con “rielaborazione” si può intendere, a seconda dei casi, una sintesi, una propria interpretazione, una personale opinione…

Con mostrare, invece, “si riportano al lettore dei concetti semplici da visualizzare e memorizzare, così come si presenterebbero nella vita reale, e si lascia a lui il compito di ‘mettere insieme i pezzi’ e farsi un’opinione”.

In altre parole, raccontando una scena l’autore riporta una sua versione dei fatti, con il risultato di non far vivere un’esperienza immersiva (vale a dire, come se fosse in prima persona) al lettore. È come se la sua voce “sussurrasse” nell’orecchio del lettore, spiegandogli cosa accade (quasi a dire: “Guarda, questa scena va letta così”).

Mostrandola, invece, l’autore esclude la propria persona e riporta l’evento in sé tenendo come linea-guida la domanda “Cosa vedrebbe/sentirebbe/percepirebbe il lettore se fosse in questa scena?”. Come risultato, il lettore assiste alle vicende come se fosse un fantasma: presente nella scena, ma incapace di interagire con i personaggi.

 

Perché è importante?

A questo punto, mi dirai: “Va bene, concettualmente ci sono, ma perché è così importante? Cosa succede se non vi faccio caso e scrivo in raccontato?”

La risposta alla prima domanda si collega al famoso “patto di sospensione dell’incredulità”, quel tacito “accordo” che si stipula tra autore e lettore quando quest’ultimo apre il libro e inizia a leggere la storia.

Da una parte, il lettore si impegna a prendere la storia per vera, e quindi a calarsi nei panni dei personaggi, a vivere le loro avventure, a credere di essere all’interno delle scene.

Dall’altra, l’autore si impegna a fornire gli strumenti necessari perché il lettore possa calarsi nella parte, e quindi si impegna a creare una trama coinvolgente, dei personaggi tridimensionali e usare uno stile in grado di comunicare in modo cristallino.

Questo significa che se l’autore espone la sua storia raccontandola, e quindi lasciando che la propria opinione si intrometta, il lettore non si sente coinvolto, perché è come se “ricevesse da terzi” delle informazioni, anziché viverle in prima persona.

Questo è ciò a cui deve puntare chi scrive: raccontare una storiella è facile, ma far vivere un’esperienza è tutt’altro… ma è anche più appagante e apprezzato.

Ovviamente, perché rispetti la sua parte del patto e crei una storia avvincente, non basta che l’autore sappia padroneggiare lo show, don’t tell, ma per evitare di confonderci, in questo articolo ci limiteremo a tale argomento.

Per quanto riguarda la seconda domanda, gli effetti sono diversi a seconda delle scene che crei, ma il rischio più grande è che limiti il potenziale di intrattenimento della storia: il lettore potrà anche apprezzare la trama, le ambientazioni e i personaggi, ma questi non avranno su di lui un impatto tale da rimanere impressi nella sua mente anche dopo aver chiuso il libro. Se, anziché raccontare la tua storia, la mostri, allora il coinvolgimento del lettore sarà maggiore e molti più dettagli rimarranno impressi nella sua mente (senza contare che sarà più incline a leggere altro scritto da te).

 

Come funziona?

Un’altra domanda che potresti farti è “Come posso, all’atto pratico, scrivere una scena fingendo che il lettore sia presente sulla stessa?”

Esistono diverse strategie valide, applicabili a seconda dei contesti.

Uno degli esempi in cui il raccontato si manifesta più di frequente sono le emozioni e gli stati d’animo: arrabbiato, triste, felice, sconvolto, sopraffatto, tranquillo, dubbioso… sono tutti termini comuni, facilmente riconoscibili, ma non tutti li manifestiamo allo stesso modo. La rabbia, per esempio, può essere espressa tramite un attacco fisico, un borbottio soffocato, un pugno sul tavolo… tutte reazioni che rimandano allo stesso concetto ma non alla stessa immagine; ciò significa che ogni lettore dà una sua personale interpretazione di “arrabbiato”, e nella sua mente ricrea una scena diversa sulla base di diversi fattori, come la tensione narrativa, il proprio vissuto, la propria personalità… ma cosa succede se l’immagine creata dal lettore X non è la stessa che aveva intenzione di trasmettere l’autore? Il lettore si ritroverà spaesato, perché la dinamica non coincide con l’immagine che ha ricreato.

Come poter esprimere quindi la rabbia (e altre emozioni o stati d’animo) in maniera chiara e univoca, così che non ci siano dubbi e il lettore possa avere un’idea precisa della dinamica della scena? Una buona strategia è quella di esprimere (mostrare) l’emozione tramite una reazione fisiologica o un’azione concreta (pugno sul tavolo, lacrime, sbadiglio, sobbalzo, sorriso…): in questo modo tutti i lettori ricreano la stessa immagine, senza equivoci.


Mario si rattristò. --> Una lacrima scese lungo la guancia di Mario.

 

La lacrima della versione mostrata trasmette comunque l’emozione del personaggio al lettore (e in maniera chiara), a differenza della versione raccontata, che pur veicolando lo stesso messaggio lascia spazio all’interpretazione (potrebbe tenere lo sguardo basso, ammutolirsi…).

Un altro caso tipico in cui il raccontato si manifesta sono i dialoghi, in particolar modo i dialogue tag (“disse”, “rispose”, “replicò”, “chiese”, “tuonò”…). Il motivo per cui l’abuso di questi verbi può essere considerato un errore in quanto forma di raccontato è che non aggiungono altre informazioni se non indicare chi ha detto quella battuta. È come se la voce dell’autore dicesse al lettore: “Nel caso in cui il contesto non fosse abbastanza chiaro, questa battuta l’ha detta Tizio”. Di nuovo, la voce dell’autore si intromette e non viene dato nessun valore informativo.

Come possiamo risolverlo? Di nuovo, diverse strategie a seconda dei contesti. Un’opzione è semplicemente eliminare il tag, ma è valida principalmente quando ci sono solo due persone sulla scena (perciò, se non ha parlato Tizio, ha parlato Caio); è possibile anche in un dialogo tra più persone, ma è più facile creare confusione.

La strategia prediletta, tuttavia, è quella di usare i beat, ovvero delle azioni o gesti che oltre a indicare chi ha detto la battuta, rendono i personaggi più dinamici e la scena più realistica.

Vediamo un esempio pratico:

 

Mario batté il pugno sul tavolo.

“Non puoi lasciarmi!” sbraitò.

Mario batté il pugno sul tavolo. “Non puoi lasciarmi!

 

La differenza è molto sottile, ma evidente. “Sbraitò” non aggiunge nulla, perché il fatto che Mario abbia alzato la voce per dire la sua battuta è già espresso nell’uso del punto esclamativo: è ridondante, può essere eliminato.

Inoltre, il fatto che il gesto (ora divenuto un beat, e non un’azione a sé stante) e la battuta sono stati messi sullo stesso rigo non solo rende la scena più immediata, ma anche inequivocabile che Mario sia la persona che ha battuto il pugno sul tavolo e il parlante.

Proseguendo il discorso, i beat sono un ottimo strumento anche nel caso degli “spiegoni”, ovvero quel fenomeno in cui un personaggio detentore dell’informazione espone al suo interlocutore (e quindi al lettore) dei fatti parlando attraverso un’unica, lunghissima, battuta. Gli effetti principali di questo modo di scrivere, palesemente raccontato, sono tre:


  1. È palese il fatto che l’autore si stia rivolgendo al lettore (di nuovo, emerge la sua voce attraverso le parole del personaggio).

  2. È poco realistico: il lettore ha l’impressione che il personaggio parli senza neanche prendere fiato.

  3. Dal momento che una battuta interrompe momentaneamente una scena per focalizzare l’attenzione sul parlante, prolungare questa pausa distrae il lettore dalla narrazione, generando confusione.


Per risolvere questa problematica, si può ridurre il lungo speech del personaggio, oppure interromperlo con dei beat o con delle domande fatte dall’interlocutore, che danno movimento al confronto e offrono la possibilità di alimentare la tensione narrativa.

Ancora, il raccontato si manifesta nelle descrizioni ambientali ed emotive.

Nel primo caso l’azione viene “messa in pausa” per consentire un lungo excursus sull’ambientazione, parentesi che può protrarsi per più paragrafi. Il problema è che quando l’azione riprende, il lettore è disorientato, perché non ricorda più come si era interrotta, tante sono state le informazioni ricevute. Di nuovo, è l’autore che spiega apertamente la scena, “prendendo il lettore da parte” e facendo una lunga digressione.

Come risolvere questo raccontato? Basta ridurre la descrizione a quei pochi elementi essenziali per orientare il lettore (oggetti imponenti, dettagli fuori posto…) e far “interagire” il personaggio con altri minori, purché abbiano una funzione a livello di trama: per esempio, se il personaggio inciampa su uno sgabello senza che questo influisca in modo decisivo sul resto della scena, si può evitare di inserirlo.

Per quanto riguarda le emozioni, il discorso è simile a quanto già detto in precedenze: anziché esporre apertamente il flusso emotivo che prova un personaggio, è meglio mostrarlo tramite gesti, azioni, battute o ragionamenti, così da guidare il lettore in maniera più chiara.

 

Si usa sempre?

Ora che abbiamo visto una panoramica sullo Show, don’t Tell, probabilmente starai pensando: “Okay, capito! Adesso che so come si manifesta il raccontato e perché è bene evitarlo, posso scrivere solamente in mostrato!”

In verità, questa potrebbe non risultare la scelta migliore. Fai tesoro di quanto abbiamo visto in questo articolo (il tuo stile ne beneficerà), ma non avere una visione “bianco o nera”, “raccontato o mostrato”: tieni presente che ci sono delle eccezioni in cui il raccontato è consentito (in mancanza di alternativa) e che una piccola percentuale di raccontato è accettabile all’interno di un testo. Potrà sembrare strano dopo il discorso che abbiamo fatto, ma un eccesso di mostrato può rendere artificiosa la narrazione e, paradossalmente, violare quel realismo che si cerca di raggiungere.

Peraltro, ci sono alcuni generi (romance, rosa, psicologico) che per loro stessa natura mettono il focus sull’introspezione e sul flusso di emozioni, ed è quindi difficile riprodurre questi cambiamenti repentini tramite azioni o reazioni fisiologiche: in questi casi (sempre a seconda dei contesti), il raccontato può essere una scelta consigliata rispetto al mostrato.

Ancora, noi usiamo il raccontato quotidianamente quando parliamo, quindi all’interno delle battute è possibile dire che qualcuno è arrabbiato senza descrivere in che modo manifesta questa emozione.

Ti ricordo che non è solo il mostrato che rende la lettura di una storia piacevole e coinvolgente, ma una serie di fattori, tra cui questo.

Per una lista di casistiche in cui raccontato è consentito, ti rimando alle mie pagine social, dove affronto questo argomento in più occasioni.


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